(Adnkronos) – Se il destino avesse un rumore che lo preannuncia, per Stefania Tozzini sarebbe il rumore di un paio di tacchi in un corridoio. “Era l’estate del 2000, avevo 23 anni”, racconta all’Adnkronos Salute in occasione del ritorno nelle piazze dell’Azalea della ricerca della Fondazione Airc, domenica 8 maggio per la Festa della mamma. Sposata con Angelo, due gemelli di un anno e mezzo (oggi ne hanno 23) che le riempiono le giornate di “autentica felicità”, un lavoro. “Ero Heidi”, sorride. In luna di miele con la vita.
“Ma al ritorno dal mare, dove ero stata a giugno con i bimbi – ricorda – noto degli strani bozzi sul collo, a sinistra. Non dolorosi, ma quando mi sdraiavo faticavo a deglutire. I primi approfondimenti non danno esiti eclatanti e spingono a trarre facili conclusioni: sei stressata, hai dei gemelli da gestire, dormi poco. Ma io posso assicurare che ero la persona più felice della terra. Ero giovane, certo, ma vivevo quei due bambini come una fortuna immensa. Mi sembrava una delle cose più belle che potesse capitare vederli crescere insieme, rubarsi il ciuccio, gattonare, giocare e mi godevo ogni singolo istante”.
In cuor suo Stefania lo sapeva: non era stress. E qui arriva l’appuntamento col destino. Con il passare dei giorni la deglutizione diventa un’operazione più complessa, “era come avere una pallina da ping pong in gola”. E’ tempo di una seconda visita. “L’endocrinologo è gentile e molto preparato. Mi dice che tutto sommato non rileva particolari anomalie”. Ed ecco che si sentono dei passi lungo il corridoio. “E’ una dottoressa, viene fatta entrare per un consulto. Lei mi tocca il collo, mi sorride, mi chiede l’età e mi invita a passare dal suo studio il giorno dopo. Ho avuto la fortuna di incrociare una persona che da tempo stava approfondendo il tema dei tumori alla tiroide, anche in relazione al disastro di Chernobyl. Era un periodo in cui i casi nei giovani senza familiarità erano in crescita. Mi presento da sola alla visita, l’ecografia dura pochi minuti. Lei mi guarda con quel suo sguardo rassicurante e mi dice: ho tutto chiaro, hai un tumore maligno alla tiroide, è operabile”.
Operabile. “La dottoressa scandisce la parola che per me è stata salvifica – sottolinea Stefania – Perché fino a quel momento nella mia testa una persona malata di tumore era destinata a morire, come un brick di latte con una scadenza impressa sulla pelle, non ‘a lunga conservazione’. Il mondo si è fermato. Il giorno della diagnosi era il 19 luglio del 2000 e io lo commemoro ogni anno. E’ il mio ‘tumor day’, mi ha aperto una nuova esistenza. Un cancro non fa parte dei progetti di vita, non ci pensi mai. Come non pensi alla ricerca, finché non ti tocca o non tocca un tuo familiare. Quando vedi l’azalea sui banchetti non ci credi davvero. Io in quel momento invece ho capito che quel fiore è vita vera, che se non ci fosse la ricerca e medici preparati a cui viene data la possibilità di approfondire, io e migliaia di altre persone non saremmo qui a raccontarlo, e lo capisci lì. E allora ti dici: perché non ci ho pensato prima, quando gli altri morivano?”.
Stefania torna a quel luglio del 2000, in quello studio. “La dottoressa parla con serenità e trasparenza di comunicazione, elemento cruciale. Dobbiamo operare, ora faremo approfondimenti specifici. Il cervello è un frullatore. Ascolti, ma hai voglia di piangere. Sei di fronte a qualcosa che appare come un tunnel molto scuro e neanche una lucina in fondo. Faccio la biopsia ed esco dall’ospedale, guardo i fiori colorati del giardino dell’Humanitas di Rozzano, prendo il telefono per chiamare mio marito. Scoppio a piangere. ‘Vieni a prendermi, ho un tumore’, dico. Il peggior esordio telefonico della mia vita. Angelo in tempo zero è di fianco a me e mi ripete: fermati, respira, è operabile. E lì ho pensato: ha ragione”.
Per Stefania l’esito della biopsia confermerà un carcinoma papillare della tiroide. “Avevo già metastasi nel collo, l’11 agosto vengo operata. Al risveglio non riesco a parlare. Il tumore ha intaccato il nervo ricorrente che è come un motorino che muove le corde vocali. La voce era stata la mia spada. E ora? Il chirurgo, di nuovo, mi spiega cosa sarebbe successo e da lì ho iniziato un lungo percorso di 6 mesi per reimparare a parlare. Niente carriera nella lirica, ok, ma la mia voce oggi è pressoché normale. Facevo gli esercizi con i bimbi che ripetevano i miei suoni. Penso che, se proprio il cancro doveva essere una tappa del mio viaggio, è stato il momento migliore. Con i figli piccoli e inconsapevoli. Sono stati il mio elisir, erano la normalità, la quotidianità perduta”.
Il cammino non è stato semplice. Il momento più terribile? “Mi viene suggerita una terapia allora sperimentale, la terapia radiometabolica con 131-Iodio, all’Istituto europeo di oncologia, con il professor Umberto Veronesi – continua Stefania – E mi viene detto: verrai isolata in una stanza. Lì è iniziato il mio vero inferno. Mi sono ritrovata da sola a riflettere. Uscita dall’isolamento, mi è stato suggerito di restare 3 settimane lontana dai miei bambini, per via della radioattività. Sono state 3 settimane di pianti. Per un po’ ho immaginato la vita come un videogame, volevo arrivare all’ultimo livello, vincere il mostro finale. E pian piano le cure vanno avanti, la luce in fondo al tunnel diventa sempre più grande”.
Oggi “sono passati 22 anni. Io sono ancora nel protocollo dei controlli oncologici per via di un piccolo residuo metastatico atrofizzato che teoricamente dovrebbe rimanere fermo, ma potrebbe risvegliarsi. Ogni controllo è un’ansia, ma vivo con serenità. I miei figli sono volati a Londra. Studiano, lavorano, inseguono la passione del calcio. Io non mi sono mai fermata, mi sono rimessa a studiare e ho preso la laurea. E così mio marito. Abbiamo iniziato a fare tante cose a livello di famiglia. Con la consapevolezza del valore della vita e del futuro, non ci scalfisce più nessuno”. Stefania ha scritto anche un diario durante il suo percorso, che è diventato un libro: ‘Cancro di segno… e di fatto’. E oggi riflette sul valore delle parole.
“Sono felice perché i miei figli hanno imparato la lezione: se scoprite che una persona ha un tumore, parlatele, scrivetele, fatele sentire che ci siete”, è il messaggio di chi l’ha vissuto. “Io mi sono ritrovata molto sola, le persone erano spaventate dalla parola tumore, non sapevano cosa dire e allora non chiamavano proprio. Ma questa è una battaglia troppo grande per essere soli con le proprie lacrime. Una parola, un sorriso sono continue iniezioni di energia. Mi tormenta il fatto che ancora oggi ci sia questa paura. Per questo io racconto che si può anche guarire, la cicatrice che ho nel collo è il mio trofeo e non ho vergogna. Cerco di portare gli altri nella mia dimensione e dico: mai chiudersi nel silenzio. E il cancro va chiamato col suo nome. La ricerca può renderlo curabile, operabile, ha un valore incredibile. Mentre guardiamo una serie tv seduti comodamente sul divano, ci sono migliaia di ricercatori chiusi in laboratorio col camice bianco a lavorare e fallire giorno dopo giorno finché non fanno centro. Sono eroi silenziosi, ci regalano la più grande chance della nostra vita”.