(Adnkronos) –
In Italia lo screening endoscopico del carcinoma del colon-retto offerto ai pazienti è di buona qualità ma ‘a macchia di leopardo’ ovvero con notevoli differenze tra i centri nelle varie regioni. E’ quanto emerge da uno studio condotto dalla Società italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva (Sige) su un campione di 64 ospedali in 17 regioni, pubblicato on line sulla rivista ‘Digestive and Liver Disease’, che ha valutato per la prima volta la qualità dello screening endoscopico del carcinoma del colon-retto in Italia. L’indagine, se complessivamente ha fornito risultati positivi, ha evidenziato al contempo numerose carenze e discrepanze tra i diversi centri della Penisola. Da qui l’appello della società scientifica affinché le istituzioni pongano maggiore attenzione nel sovvenzionare e monitorare le attività di screening di secondo livello, come la colonscopia e tutti fattori che ne determinano la sua qualità. 

Il cancro del colon-retto – ricorda la Sige in una nota – è un grave problema sanitario in tutto il mondo. Basti pensare che rappresenta la terza neoplasia per incidenza e la seconda per mortalità: sono quasi 50mila i nuovi casi in un anno in Italia, circa 500mila in Europa e quasi 2 milioni nel mondo. A fare la differenza nella storia clinica dei pazienti è lo screening, che consente una diagnosi precoce e una riduzione della mortalità.  

“In Italia, lo screening utilizzato è il test del sangue occulto nelle feci, eseguito ogni 2 anni nelle persone tra 50 e 69 anni, ad eccezione della regione Piemonte dove viene eseguita la rettosigmoidoscopia”, spiega Marcello Maida, dirigente medico dell’Unità operativa complessa di Gastroenterologia degli ospedali Riuniti Sant Elia-Raimondi di Caltanissetta e membro del consiglio direttivo nazionale della Sige. “Se il test di primo livello risulta positivo – spiega ancora Maida – il programma di screening prevede l’esecuzione di una colonscopia come esame di secondo livello. La qualità di questo esame è perciò determinante nel garantire l’efficacia dell’intero programma di prevenzione”. L’obiettivo è infatti quello di rimuovere eventuali lesioni pre-cancerose, come ad esempio i polipi, in una fase precoce ed asintomatica. In questo modo si interviene in maniera meno aggressiva e aumentano le possibilità di cure efficaci, meno impattanti per il paziente e con una maggiore probabilità di guarigione.  

L’indagine ha analizzato i dati di 64 ospedali in 17 regioni italiane: circa il 50% proveniente dal Nord, quasi il 20% (18,75%) dal Centro e poco più del 30% (31,25%) dal Sud Italia. Ogni centro risulta dotato di una media di circa 5 endoscopisti coinvolti nello screening e di questi circa 3 su 4 (il 71,4%) sono gastroenterologi. Se la maggior parte dei centri (93,8%) programma una colonscopia in tempi brevi e comunque entro 3 mesi, a colpire è il dato discrepante nelle varie regioni italiane. Infatti, si registra mediamente in un anno un numero significativamente più alto di colonscopie di screening (6.500) eseguiti al Nord rispetto ai centri centro-meridionali (rispettivamente 4.000 e 3.000). Stessa discrasia si rileva nel numero degli endoscopisti, che sono mediamente 6,5% al Nord e 5% e 3,5% al centro e al Sud. 

“Come Sige abbiamo deciso di eseguire uno studio ad hoc per valutare la qualità della colonscopia di screening in Italia, delle tecnologie con cui viene eseguita e qual è l’aderenza alle linee guida internazionali nella pratica clinica. Se da una parte possiamo ritenerci soddisfatti dalla qualità offerta ai pazienti in Italia – continua Maida – dall’altra non possiamo non registrare una grande eterogeneità tra tutti i centri partecipanti, con una notevole difformità di comportamento nell’esecuzione dello screening endoscopico del tumore del colon-retto. Questi aspetti andrebbero adeguati e uniformati a livello nazionale mediante un monitoraggio costante dell’attività dei centri screening”. 

“Lo screening del carcinoma del colon ha un grande impatto sulla storia naturale di questo tumore e contribuisce a ridurne la mortalità”, ricorda Maida. “Pertanto, le istituzioni dovrebbero porre maggiore attenzione nell’implementare queste attività. Innanzitutto – sostiene il gastroenterologo – con una linea di indirizzo nazionale al fine di garantire una maggiore uniformità di comportamento tra tutti i centri ma anche attraverso un maggiore investimento per garantire personale sufficiente e strumentazione tecnologica adeguata e costantemente aggiornata. In questa ottica – conclude – le società scientifiche nazionali potranno avere un ruolo importante nel supportare il processo di uniformità e la crescita dei singoli centri in tutto il territorio nazionale”.