(Adnkronos) –
Monica Giannotta, senior postdoc all’Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare) di Milano, ha 45 anni, e un unico sogno: continuare a lungo a far parte del mondo della ricerca. Da precaria sa che “nulla è scontato”, nonostante i premi, i risultati e i riconoscimenti che sta accumulando. Il laboratorio è la sua dimensione, e per averla ha rinunciato a tanto, anche ritardando il momento in cui poter coronare con un figlio l’amore che la lega a Emiliano, che nella vita si occupa di controllo qualità in ambito aziendale. Oggi stringe fra le braccia Mattia, 3 anni. E’ arrivato quando Monica di anni ne aveva 41. Ed Emiliano nella svolta che le ha consentito di conciliare carriera scientifica e famiglia gioca un ruolo cruciale. In questa storia è lui che raggiunge lei e sceglie di trovarsi un lavoro nella stessa città. Ed è lui che prende quella che in maniera colloquiale viene ancora chiamata ‘maternità facoltativa’, ma che in realtà tecnicamente è il congedo parentale, retribuito al 30%, pensato per consentire a un genitore di astenersi dal lavoro per occuparsi del proprio bimbo nei primi anni di vita.
Sara Sepe invece di anni ne ha 37. Sposata con Enzo, professore di storia e filosofia al liceo Einstein di Milano, hanno una figlia, Sofia, 4 anni, e sono in attesa di Elsa che dovrebbe nascere a metà giugno. Anche Sara lavora all’Ifom e in comune con Monica ha un’altra cosa: entrambe hanno usufruito del cosiddetto Lab G, un laboratorio nato nel 2007 e studiato per le ricercatrici in attesa di un bebè o neomamme per garantire loro la possibilità di lavorare in massima sicurezza per il periodo della gravidanza e dell’allattamento. “Non è così ovvio trovare nei centri di ricerca uno spazio come questo. Io ho avuto esperienze all’estero e in Italia e non ne ho trovati”, osserva. Il più delle volte succede semplicemente che, quando si aspetta un bimbo o si sta allattando, venga preclusa alle ricercatrici la vita di laboratorio per evitare il potenziale rischio di esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici. Dal 2007 al 2020 le ricercatrici che hanno portato avanti temporaneamente la loro ricerca nel Lab G sono state quasi 90.
Madri in camice si diventa così. Non senza sacrifici. Le due ricercatrici si raccontano all’Adnkronos Salute alla vigilia della Festa della mamma e offrono uno spaccato della loro realtà, spiegando quali sono le aspettative, i bisogni insoddisfatti, i traguardi da raggiungere per una scienza sempre più in rosa.
Sara è specializzata in malattie da invecchiamento. Nata a Venosa (Potenza), vivendo lontano da casa non ha a disposizione i nonni per un aiuto nella gestione familiare. “Ma ho il supporto di mio marito – dice – con il quale riusciamo a organizzarci e a fare in modo che entrambi i nostri lavori non vengano messi a dura prova. Ci dividiamo la giornata: io accompagno la bimba al mattino alla scuola materna, lui che comincia presto al mattino va invece a prenderla nel pomeriggio. In pandemia è stato lo stesso”, gestione in tandem.
Monica durante l’emergenza Covid-19 non ha mai smesso di andare in laboratorio. “In quel periodo avevo una revisione per un lavoro importante che poi è stato pubblicato sulla rivista ‘Circulation Research'”. In questo paper, il nome di Giannotta nell’elenco degli autori compare nella posizione che si riserva a chi ha la responsabilità dello studio. “Una responsabilità che sentivo tanto”, ricorda. Lo studio, che poi si è guadagnato l’highlight dell’Evbo (European Vascular Biology Organization), descrive un meccanismo molecolare che controlla la permeabilità endoteliale nel glioblastoma e nel cancro ovarico. La ricercatrice è di Sogliano Cavour (Lecce), ha una laurea in biotecnologie farmaceutiche all’università di Bologna e un dottorato all’Istituto Mario Negri Sud di Lanciano (Chieti).
Poi arriva il postdottorato nel laboratorio di Elisabetta Dejana in Ifom, dove Monica consegue vari successi scientifici e anche il premio Galeno. Per 6 anni ha vissuto il suo matrimonio a distanza, tra Milano e Ancona. Poi Emiliano l’ha raggiunta nel capoluogo lombardo ed è arrivato Mattia, “la gioia della nostra famiglia”, confida. La coppia si conosce dall’età di 17 anni ed è molto affiatata nella gestione familiare. Monica oggi è impegnata nello studio del doppio ruolo di una proteina nelle malattie vascolari del cervello (glioblastoma e ictus ischemico). Mentre l’attenzione di Sara in laboratorio è tutta focalizzata sull’accumulo del danno al Dna durante l’invecchiamento “che predispone a una serie di patologie. Io studio questi meccanismi e potenziali agenti terapeutici per arginarne l’effetto”. Nello specifico, “mi occupo di malattie come l’Alzheimer e la fibrosi polmonare idiopatica”. Il sogno scientifico, a parte quello di “pubblicare su ‘Nature’, la rivista ‘bibbia’ della comunità scientifica, è quello di “poter vedere che questi studi si traducono in nuovi approcci” per patologie così complesse.
E’ un lavoro impegnativo e, dice Sara, “ci vuole sicuramente tanta determinazione per proseguire, e fare famiglia, nonostante la precarietà che in linea generale caratterizza questa professione”. Lei, laurea in biotecnologie mediche all’università di Tor Vergata, dopo il dottorato a Roma (durante il quale ha conosciuto Enzo) ha proseguito la carriera scientifica in Olanda, all’Erasmus Medical Center di Rotterdam. Tornata in Italia per coniugare vita privata e carriera, ha trovato lavoro in Ifom nel gruppo diretto da Fabrizio d’Adda di Fagagna. Ha vissuto il precariato fino a qualche mese fa, “ma ora – racconta – ho una posizione permanente come staff scientist, che ho ottenuto in concomitanza quasi con la mia gravidanza”. Gravidanze che “sono sempre state accolte positivamente” sul posto di lavoro, “ma, di nuovo, non è scontato che questo succeda ovunque. Quindi – riflette Sara – quello che mi auguro è che si allarghi la concezione che una donna incinta non è limite, ma un arricchimento”.
Ma le famiglie di genitori che lavorano hanno bisogno di servizi. Fra quelli su cui Monica ha potuto fare affidamento, ha trovato molto d’aiuto per esempio l’asilo convenzionato di Ifom per Mattia. Oltre al Lab G che le ha permesso “di lavorare fino all’ottavo mese inoltrato”. Mattia è nato a ottobre e la mamma è rientrata al lavoro a febbraio. La gestione del piccolo di casa “non è semplice non potendo contare sui genitori” per entrambi lontani. “Abbiamo una babysitter che ci aiuta all’occorrenza – dice Monica – Ma quando per esempio Mattia non sta bene o c’è bisogno, mio marito usa il mio congedo parentale, che è stato trasferito a lui. I suoi datori di lavoro sono persone squisite e hanno acconsentito. E’ stato un toccasana. Ma per riuscire a tenere tutto in equilibrio la giornata deve essere molto organizzata”, in maniera quasi militare.
Sul fronte della conciliazione vita-lavoro “c’è ancora tanto da fare”, ammette Monica che evidenzia da un lato l’aspetto molto difficile della precarietà nel mondo della ricerca. Una condizione che vive ancora adesso. “In Italia soprattutto è difficile, nonostante una persona faccia bene, ottenere una situazione stabilizzata. Vanno migliorati questi meccanismi e offerte più alternative per la gestione dei bimbi. Come per esempio mettere a disposizione babysistter a livello comunale o altre forme di supporto, per esempio per i mesi estivi, come campus a costi calmierati. E vanno cambiati i vecchi paradigmi. Gioverebbe sia agli uomini che alle donne. E ai figli, che potrebbero godere allo stesso modo di entrambi i genitori”.