(Adnkronos) – Le parole sono pietre, ebbe modo di denunciare fra gli altri lo scrittore Andrea Camilleri, invitando alla riflessione sulla necessità di rendere consapevoli di questo potere distruttivo le giovani generazioni. I pazienti lo sperimentano talvolta sulla loro pelle: le parole del medico possono essere un balsamo che cura, o frecce aguzze in grado di ferire. E in quest’ultimo caso fanno male, letteralmente dolore fisico. La prova è nel cervello. Uno studio italiano, con l’aiuto dell’imaging cerebrale, ha fotografato proprio questo: le parole negative e indelicate – a maggior ragione se sono quelle di un medico al quale si è affidata la propria vita – attivano gli stessi circuiti neurali del dolore.
L’indagine sperimentale, presentata oggi durante un convegno a Milano, è stata battezzata ‘Fiore 2 (Functional Imaging of Reinforcement Effects)’. A promuoverla la Fondazione Giancarlo Quarta Onlus in collaborazione con l’università degli Studi di Padova e il Padova Neuroscience Center (Pnc). Gli autori hanno misurato gli effetti a livello cerebrale di una cattiva comunicazione nel rapporto terapeutico. Quello che hanno scoperto è che di fronte a parole, ma anche a comportamenti che ci offendono, che non rispondono ai nostri bisogni, possiamo provare un dolore che, a livello di attivazioni cerebrali, è sovrapponibile a quello fisico. Questa esperienza ha una precisa sostanza neuroscientifica ed è tanto più importante se osservata in una relazione di cura, fanno notare gli esperti.
Che cosa succede a livello neurale quando la comunicazione medico-paziente non funziona? Quali effetti possono avere sul malato, parole dure o atteggiamenti non accoglienti? Sono le domande a cui prova a rispondere lo studio svolto con le strutture venete dalla Fondazione Quarta, che si occupa da anni di esplorare l’importanza del rapporto medico-paziente dal punto di vista psicologico, clinico e sociale, con lo scopo di alleviare la sofferenza dei malati. Fiore 2 è la prosecuzione di un primo studio che aveva misurato gli effetti a livello cerebrale di una comunicazione rispondente ai bisogni del malato. In questo secondo lavoro, ancora una volta svolto mediante tecniche di neuroimaging (Risonanza magnetica funzionale), si è messo a fuoco invece cosa succede nel cervello la relazione col medico non funziona.
A 30 partecipanti sani (11 maschi e 19 femmine, di età compresa tra i 19 e i 33 anni) sono state sottoposte, in scansione cerebrale, una serie di vignette raffiguranti varie situazioni sociali di interazione tra due persone nelle quali il soggetto riceve tre tipi di stimoli detti ‘rinforzo’: un rinforzo negativo, in cui il comportamento dell’altro non risponde al bisogno del soggetto, uno neutro/di controllo e un rinforzo positivo. Ad esempio: stai salendo sul treno con una valigia pesante e la persona dietro di te sbuffa e non ti aiuta (rinforzo negativo), resta immobile e aspetta che tu salga (neutro), ti sorride e ti aiuta a caricare la valigia (rinforzo positivo).
I soggetti, oltre alla risonanza, hanno compilato due test di valutazione della personalità e dell’affettività: il Bfq – Big Five Questionnaire e il Qdf – Questionnaire on Daily Frustrations. Sulla base dei dati raccolti, lo studio ha misurato e analizzato: le risposte di attivazione, ovvero quali aree cerebrali risultano maggiormente attivate dagli stimoli negativi rispetto agli altri stimoli; le risposte di connettività, ovvero come dialogano (o non dialogano) le diverse aree del cervello quando c’è un rinforzo negativo e le correlazioni cervello-comportamento-personalità. Risultato: è emerso che ricevere il rinforzo negativo – la parola aggressiva, svalutante, che lascia insoddisfatti – è un’esperienza totalizzante, perché attiva allo stesso tempo aree del cervello appartenenti alle sfere cognitiva, emotiva e motoria.
A livello di connettività tra le diverse aree del cervello, si è osservato che il rinforzo negativo attiva il network che percepisce ed elabora il dolore con aree sovrapponibili al dolore fisico: la parola negativa, dunque, ferisce. Quando la comunicazione non funziona, si è osservata un’attivazione delle aree motorie, come se la persona sentisse minata la sua integrità e fosse pronta a fuggire/reagire. Non solo: la parola negativa favorisce un comportamento non sociale, evidenza riscontrabile a livello cerebrale con un minor dialogo tra i due emisferi del cervello.
“Il mancato riconoscimento dei bisogni di una persona, e del paziente in particolare, rappresenta una significativa violazione della relazione sociale”, e “causa una reazione emotiva psichica e fisica immediata con attivazione di un importante sistema di allarme che coinvolge un circuito neurale simile a quello del dolore fisico”, evidenzia uno degli autori dell’indagine, Fabio Sambataro, Dipartimento di neuroscienze dell’università di Padova.
“Se il disallineamento bisogno-risposta persiste – avverte – la relazione può impoverirsi, perdere di significato e addirittura minare l’autostima e risultare inutile, se non addirittura dannosa”. Qualunque atto medico, ricorda Andrea Di Ciano, responsabile delle ricerche scientifiche di Fondazione Quarta, “viene realizzato anche attraverso la parola, la quale, come dimostrato da un numero sempre crescente di ricerche scientifiche, è una componente essenziale dell’efficacia dell’atto medico stesso”.
Pertanto, conclude l’esperto, “è doveroso e utile avere cura delle parole, di quelle pronunciate, affinché siano di guida e conforto per il paziente, ma anche delle parole non dette nei momenti in cui sarebbero state necessarie. Infatti non è possibile non comunicare, fare un passo indietro rispetto alla dimensione della parola: ignorare il bisogno del paziente costituisce un rinforzo negativo che può far sentire non considerati e non accolti, sia il paziente in quanto ammalato sia, soprattutto, il paziente come persona”.