“Se da studente avessi sostenuto che una persona che ha gli anticorpi contro un’infezione rischia di ammalarsi come un’altra che non li ha, se avessi detto che averli o non averli è la stessa cosa, mi avrebbero bocciato”. Nino Mazzone, fra i medici italiani contagiati durante la seconda ondata di Covid-19 (nel novembre 2020 si ritrovò ricoverato dalla sera alla mattina nel reparto che dirige all’ospedale di Legnano, nel Milanese), è convintamente pro vax e pro pass, ma anche fermo nel dire che i guariti potrebbero non avere bisogno di vaccinarsi a breve termine per proteggersi da un virus che hanno già conosciuto. E oggi all’Adnkronos Salute torna a denunciare “l’obnubilamento delle menti, la visione cieca e ostinata” che porta il Comitato tecnico scientifico per l’emergenza coronavirus e le autorità sanitarie a sostenere l’inutilità del test degli anticorpi anti Sars-CoV-2.
“Da un anno – ricorda il primario, direttore del Dipartimento di Area medica, Cronicità e Continuità assistenziale dell’Asst Ovest Milanese – sosteniamo che i pazienti guariti da Covid sviluppano un’immunità drammaticamente diversa dai vaccinati, una protezione robusta, duratura e di alto livello. Da un anno ci battiamo perché venga eseguito il dosaggio degli anticorpi prima di decidere se somministrare o meno il vaccino ai guariti. Ma siamo stati derisi e insultati, nonostante lo studio che abbiamo pubblicato su ‘Jama Internal Medicine’ a fine maggio e che dimostra come, a distanza di un anno, i tassi di reinfezione nei guariti siano inferiori all’1%. Dati confermati da altri gruppi anche su ‘The Lancet'” e soprattutto dai fatti: “Ad oggi, di gente che si è riammalata di Covid dopo essere guarita, nelle rianimazioni non c’è traccia”, assicura Mazzone.
“Da un anno – incalza – sosteniamo quello che in questi giorni ha detto pure Robert Redfield, fino a pochi mesi fa a capo dei Cdc americani: il test degli anticorpi va fatto”, anzi di più. Va reso “obbligatorio con scadenze a 3 o 6 mesi”, ha affermato Redfield che fissa anche delle soglie di sicurezza. “Calcolo il livello minimo di resistenza fra i 300 e i 500 anticorpi senza altre patologie”, ha spiegato in un’intervista a ‘La Repubblica’, mentre “a quota 1.000 anticorpi si è molto più sicuri” anche in caso di altre malattie concomitanti. Se si va sotto, serve “subito un booster che può riportare” gli anticorpi “fino a circa 2.500 e oltre”. Ma se si resta sopra no, precisa Mazzone che rilancia il suo appello: “Le politiche vaccinali vanno mirate sulla base dei dati che emergono, per evitare il rischio di sovratrattamento e di potenziali effetti collaterali da vaccino che – avverte – in chi ha già gli anticorpi compaiono più spesso”.
Mentre in Italia avanza la campagna sulle terze dosi di vaccino anti-Covid e c’è chi di dose ne prospetta anche una quarta, e poi altre ancora, il medico siciliano trapiantato da anni in Lombardia, specialista in medicina interna, ematologia, immunologia clinica e allergologia, chiede al Cts di abbandonare “una metodologia clinica non rispettosa dei principi della medicina basta sull’evidenza. Primum non nocere”, invoca Mazzone. “E’ giusto dare la terza dose a tutti senza sapere gli effetti delle prime due, soprattutto negli immunodepressi?”, domanda. “E’ questa una medicina buona, una medicina basata sulle evidenze, quella sulla quale ogni sera in Tv fanno battaglie illustri professori e consulenti?”, chiede ancora. “Inutile sgolarsi se poi si ignorano i dati”.
“Due sono le cose”, ragiona l’esperto: “O le autorità competenti hanno autorizzato dei test sullo studio dell’immunità non affidabili, oppure i risultati degli anticorpi devono essere validati e questi test resi fondamentali per decidere le strategie vaccinali presenti e future. Ci vuole chiarezza nel confrontare i dati tra immunità naturale”, quella che viene attivata quando le nostre difese naturali incontrano un patogeno, lo combattono e lo vincono, “e immunità acquisita” conferita dal vaccino, esorta Mazzone.
“Questo è un elemento fondamentale per poter decidere una strategia che dovrà essere mondiale”, ammonisce. “L’infezione da Sars-CoV-2 genera immunità – ripete il medico – un’immunità che ormai diversi studi pubblicati, oltre al nostro, indicano come stabile e completa. Un’immunità determinata non solo da anticorpi, ma anche da cellule della memoria. Il che – osserva – implica una capacità prolungata, forse lunga anni, di rispondere a una nuova infezione con nuovi anticorpi”.
Per Mazzone “è arrivato il momento di porsi seriamente le domande che Mitchell H. Katz della New York Medical School, nel board degli editor di Jama, poneva nell’editoriale a commento dei nostri dati. Quesiti che non hanno avuto ancora risposta chiara da parte delle istituzioni” e che si riassumono in uno: “Quanta protezione contro future infezioni fornisce una precedente infezione da Sars-CoV-2?”.
In altre parole, “siamo sicuri che è giusto fare il vaccino ai guariti dopo pochi mesi – s’interroga lo specialista – quando molti vulnerabili ancora non sono protetti e mentre la maggior parte della popolazione mondiale non è immunizzata? Non sarebbe meglio capirlo, prima di destinare a chi magari non ne ha bisogno centinaia di milioni di dosi di vaccino che potrebbero essere liberate e messe a disposizione dei Paesi poveri?”.
“Confrontiamo le vere differenze cliniche tra chi ha l’immunità naturale e chi quella acquisita”, insiste l’esperto: “Tasso di reinfezione, ospedalizzazione, gravità dei sintomi, accessi in terapia intensiva. Questi – conclude il primario guarito, e vaccinato secondo le indicazioni ministeriali come ci tiene a far sapere – sono i dati che adesso ci servono per permetterci di usare meglio l’arma essenziale del vaccino. Perché continuiamo a non capirlo, giustificando comportamenti di politica sanitaria che non reggono più, una volta finita l’emergenza? Fate decidere ai medici, in base alla storia clinica e al dosaggio degli anticorpi, in base alle evidenze, se una persona ha diritto o non ha diritto al Green pass”.