“Sono le 21 del 20 marzo 2020 e questa storia della maxiemergenza per noi, a Lodi, è iniziata da un mese”. Stefano Paglia, primario del pronto soccorso, scrive di getto, mette in ordine la sequenza di eventi. E’ la prima volta che torna a casa da quando la sera del 20 febbraio 2020 è stato richiamato in servizio insieme ai dirigenti dell’Asst e altri primari per mettere in piedi in tutta fretta un comitato di crisi. Sul tavolo l’esito positivo al coronavirus Sars-CoV-2 di un giovane ricoverato a Codogno. Mattia Maestri, primo caso di Covid accertato in Italia. La zona rossa si avvicina. Il primo paziente diagnosticato, osserva Paglia, “è già intubato in terapia intensiva”, in condizioni critiche.
Il personale del pronto soccorso di Codogno viene avvisato. Ora sono tutti bardati, indossano mascherine e protezioni previste da una procedura completata una settimana prima. Comincia l’evacuazione del reparto. Non è un film di fantascienza, è la realtà. “Oggi non sarei in grado di ricostruire l’accaduto con la stessa precisione – racconta il primario a distanza di un anno all’Adnkronos Salute – Ma un ricordo è nitido: in un primo momento ci siamo illusi che avremmo potuto vincere il virus con una guerra lampo, per poi capire che non era questo lo scenario, che era tutto più drammatico”.
L’illusione si infrange “quando il 118 decide di fermarci – ripercorre Paglia – Ci chiama il coordinamento e ci dice: riorganizzatevi, rimettete a posto le cose. Ci fu una ribellione quando lo dissi allo staff dell’Unità operativa. La gente si arrabbiò. Ma noi non sapevamo che avevano elementi sufficienti per dire che il contenimento era fallito. Il virus ormai si era diffuso verso Bergamo e Brescia e credo che lo abbiamo capito entro i primi 7-10 giorni: lo sforzo iniziale, affrontato di petto con entusiasmo e dolore, non era stato sufficiente. Dopo è stato chiaro anche che, se non fosse andata bene al primo colpo, ci saremmo trovati imprigionati in una situazione molto più lunga. E così è stato. Siamo ancora qui a lottare contro il virus”.
“Sono successe tante cose da allora – prosegue Paglia – il contesto epidemiologico è cambiato tante volte, abbiamo dovuto adattarci, imparare a cambiare pelle. E’ la terza volta che riorganizziamo l’assetto degli ospedali. Passiamo da un’emergenza all’altra e continuiamo a lavorare così”. Dopo i primi mesi drammatici, è arrivata l’estate carica di speranze. “E’ stato difficile francamente quando è partita la seconda ondata di Covid. C’era il retropensiero che non tornasse più dopo la rassicurante bella stagione. Ma non ci siamo mai disarmati. Lodi era diventato un ospedale Covid free, avevamo festeggiato il traguardo, ma in pronto soccorso arrivava occasionalmente qualche malato positivo che trasferivamo nei reparti ancora attivi. Mai più abbiamo tolto i Dpi, neanche per un solo giorno”.
Il pensiero di Paglia va alle prime settimane buie, “all’inconsapevolezza che c’era. Ci abbiamo perso mesi nel dibattito ‘mascherina sì o no’. Ci sono state una serie di fasi confuse”. Ora si chiedono tutti: c’era o no un piano pandemico aggiornato a cui fare riferimento? Paglia si ferma, ci pensa su: “La sensazione, fuori dai denti, è che l’ultimo piano adeguato, strutturato, forte, fosse stato quello per Ebola. Che quella minaccia che poi non si è concretizzata, l’avevamo presa sul serio. Si erano fatti incontri per formare sulla vestizione e la svestizione dai Dpi, momenti critici a maggior rischio contagio. Si parlava di percorsi, di allerta, e la temuta epidemia non è arrivata”.
“Stavolta, invece, all’inizio nessuno ha preso sul serio questa emergenza – dice Paglia – Arrivavano dati confondenti su una mortalità poco superiore all’influenza dalla Cina, non si spiegava il perché di questo allarme. Il sospetto che fosse più grave lo abbiamo avuto vedendo le immagini di un ospedale tirato su in dieci giorni”. Ma “non abbiamo fatto in tempo a realizzare e il virus lo avevamo in casa. A marzo dalle nostre parti le idee erano diventate chiare da subito. Anzi, avendo pochissimi tamponi il quadro che ci eravamo fatti era peggiore. Non avevamo idea che quei casi gravi erano una percentuale minima del totale. E’ stato inquietante. Pensavamo a una mortalità altissima”.
Paglia non punta il dito: “Quando una pandemia l’aspetti per oltre 100 anni e non si presenta, pensi di poterla evitare. Bisogna ammettere con onestà intellettuale che è difficile pensare che potesse andare diversamente dopo tre falsi allarmi. Vedo una grande voglia di fare processi a quello che è stato, di guardare indietro. Se fosse per chiederci cosa potevamo fare meglio, sarebbe positivo. Invece mi sembra che si voglia cercare colpevoli e basta. Non credo sia un approccio da persone adulte”.
L’ospedale di Codogno nei primi giorni ha dovuto fronteggiare anche attacchi, velate accuse. “Io di quello che veniva detto fuori me ne fregavo. Pensavamo di lasciarci la pelle in quei giorni, nessuno di noi è stato toccato dalle parole dette. Avevamo altro da fare. Le cose si sono risolte da sole col tempo, senza problemi perché erano frutto di notizie parziali. Ma ora – incalza l’esperto – bisognerebbe provare a pensare a soluzioni per il futuro. Mio padre è morto da tempo, ma mi ha insegnato che l’esperienza è la somma degli errori. Che si verifica cosa si è fatto, cosa ha funzionato e cosa no. Accettando la realtà e lavorando per migliorarla. Non si può pensare che il sistema andava bene così ed è successo tutto perché qualcuno ha sbagliato. Il sistema non andava bene, è chiaro. E se le strategie non funzionano vanno cambiate”.
Cosa colpisce di questa malattia? “Alcune caratteristiche mai viste – spiega Paglia – Abbiamo assistito pazienti giovani con quadri di carenza di ossigeno quasi non compatibili con la vita, che dicevano di stare bene. Mai in vita mia mi era capitato di trovarmi a gestire una cosa simile. Ricordo alcuni ragazzi dell’ambulanza che ci chiamavano increduli: il saturimetro è rotto, dicevano. Non erano rotti i saturimetri. Erano gli effetti di un’ipossiemia silente che porta le persone al limite. I pazienti arrivavano tardissimo in ospedale. Altra peculiarità: la tempesta citochinica”, questa forte reazione infiammatoria che danneggia profondamente i pazienti.
Mentre nelle trincee degli ospedali si consuma questo dramma, fuori c’è chi nega l’esistenza del virus. Ma per Paglia il problema non sono solo loro, persone “povere di elementi che si lasciano trascinare in teorie cospirative studiate ad arte da lobbisti portatori di interessi. Oltre al negazionista ‘da operetta’ c’è di più: c’è una linea più sottile di negazione, che coinvolge anche professionisti sanitari che tendono a cancellare la parte scomoda. Si fatica ad accettare l’idea che questa cosa è destinata a imporre cambiamenti nelle nostre vite, che il virus è matematica, fa quello che gli consentiamo. E’ umano faticare ad affrontare la realtà di fronte a uno scenario che si pensava incredibile. Ma è ora di crescere”.
Oggi la situazione negli ospedali è che “siamo sempre meno e sempre più stanchi – conclude Paglia – Ma io ho la speranza forte che il combinato disposto tra la vaccinazione progressiva della popolazione e la flessione che mi auguro si veda ancora una volta con l’arrivo del caldo, come indiscutibilmente c’è stata la scorsa estate, dia quella botta definitiva per riuscire a tenere Covid sotto controllo. E spero che da settembre-ottobre si possano riprendere un po’ in mano le nostre vite. A ottobre lo capiremo: e se non saremo fuori neanche allora, metteremo insieme i cocci e andremo avanti”.