“Nessuna delle mutazioni attualmente documentate nel virus Sars-CoV-2 sembra aumentare la sua trasmissibilità nell’uomo”. La buona notizia arriva da uno studio pubblicato su ‘Nature Communications’, coordinato dall’University College di Londra (Ucl) e condotto analizzando genomi virali provenienti da 46.723 persone Covid-positive in 99 Paesi del mondo, raccolti sino a fine luglio. Gli scienziati hanno osservato che le mutazioni più comuni hanno un effetto neutro sulla trasmissibilità del nuovo coronavirus, compresa una mutazione nella proteina Spike chiamata D614G, che si sospettava potesse rendere il virus più trasmissibile. Così non è, concludono i ricercatori che in base ai risultati ottenuti si dicono ottimisti sull’efficacia dei vaccini in arrivo contro Covid-19.
“Le notizie sul fronte vaccini sembrano ottime”, afferma Francois Balloux dell’Ucl Genetics Institute, autore principale del lavoro. Se è vero infatti che l’introduzione dei ‘prodotti-scudo’ potrebbe esercitare una pressione selettiva sull’agente patogeno, in seguito alla quale “il virus potrebbe acquisire mutazioni per cercare di sfuggire al sistema immunitario umano” attivato dal vaccino per riconoscere il nemico, “siamo fiduciosi che saremo in grado di segnalarle prontamente – confida lo studioso – permettendo se necessario di ‘aggiornare’ i vaccini” in modo da conservarne le virtù protettive.
“Fortunatamente abbiamo scoperto che nessuna mutazione” al momento acquisita da Sars-CoV-2 “sta portando a una diffusione più rapida di Covid-19 – dichiara Lucy van Dorp dell’Ucl Genetics Institute, prima autrice della ricerca – ma dobbiamo rimanere vigili e continuare a monitorare le nuove mutazioni, in particolare quando i vaccini verranno introdotti” sul mercato e somministrati alla popolazione.
Finora – spiegano gli scienziati – sono state identificate 12.706 mutazioni di Sars-CoV-2, per 398 delle quali esistono solide prove che si siano verificate ripetutamente e indipendentemente. Di queste, i ricercatori ne hanno approfondite 185 che si sono ripresentate almeno 3 volte in modo indipendente durante la pandemia.
Per verificare se le mutazioni aumentavano la trasmissibilità del patogeno, gli studiosi hanno modellato l’albero evolutivo del nuovo coronavirus e hanno cercato di capire se una particolare mutazione stava diventando via via più comune all’interno di uno dei ‘rami’ dell’albero. Hanno cioè valutato se, dopo che compare una mutazione, i virus che discendono dal primo mutato sono più numerosi dei ‘figli’ dei virus senza quella particolare mutazione. Dall’operazione “non è emersa alcuna prova” che le mutazioni più comuni aumentino la trasmissibilità del nuovo coronavirus. Gli autori hanno inoltre rilevato che “la maggior parte delle mutazioni comuni sembra essere stata indotta in Sars-CoV-2 dal sistema immunitario umano, piuttosto che essere il risultato dell’adattamento del virus al suo nuovo ospite”.
Un’osservazione in apparente contrasto con un’altra ricerca condotta dalla stessa équipe dopo l’evidenza di una trasmissione del coronavirus dall’uomo ai visoni di allevamento. “Quando abbiamo analizzato i genomi dei virus provenienti dal visone – riferisce van Dorp – siamo infatti rimasti sorpresi nel vedere la stessa mutazione apparire più e più volte in diversi allevamenti, nonostante quelle stesse mutazioni fossero state osservate raramente negli esseri umani”. L’ipotesi di Balloux è che, avendo iniziato a studiare il patogeno alla fine del dicembre scorso, anche se poi si è scoperto che la circolazione nell’uomo era cominciata già a ottobre-novembre, “potremmo aver perso il periodo di adattamento precoce di Sars-CoV-2 agli esseri umani. Mutazioni cruciali per la trasmissibilità nell’uomo potrebbero essere emerse prima, impedendoci di trovarle”.