dall’inviata Ilaria Floris
La Mostra di Venezia? “E’ il festival della sopravvivenza. I lavoratori dello spettacolo sono 200mila, speriamo che non debbano soffrire troppo fino al vaccino. Auguro a tutti quanti quelli che fanno questo lavoro tanto coraggio, perché stiamo andando incontro all’inverno, e la sofferenza durerà ancora, credo, per parecchi mesi”. A dirlo è Alessandro Gassmann, ospite al Lido di Venezia per parlare dell’opera prima di Mauro Mancini ‘Non odiare’, del quale è protagonista insieme a Sara Serraiocco e Luka Zunic.
Il film racconta la storia di un medico ebreo, Simone Segre, che trovandosi di fronte al dilemma di salvare o meno un uomo che ha appena subito un incidente stradale, decide di abbandonarlo al suo destino quando scopre che ha una svastica tatuata in più parti del corpo. L’uomo sarà però dilaniato dai sensi di colpa, e cercherà di aiutare quel che resta della famiglia dell’uomo per rimediare al suo conflitto morale. “Ho deciso di fare un’opera prima perché era una sceneggiatura che mi è piaciuta molto, non aveva uno dei difetti ricorrenti delle sceneggiature italiane e cioè una sorta di ridondanza di parole e spiegazioni. Il cinema deve spiegare attraverso silenzi e inquadrature”, spiega Gassmann.
L’attore prova ad immaginare cosa avrebbe fatto al posto del medico, e con la consueta sincerità risponde così: “Personalmente l’avrei salvato -dice- non perché sono buono, ma perché alla mia età sono arrivato alla conclusione che bisogna vedere il nemico non come un avversario ma dialogarci e capire da dove nasce il suo odio”. E ammette: “Sono stato da giovane irrequieto, posso definirmi anche aggressivo con chi mi creava offesa o prepotenza, ma ora non lo sono più, e ci sono arrivato anche grazie alle letture al cinema”.
Gassmann rivela anche alcuni risvolti personali legati alla trama del film, dovuti alle origini ebraiche di una parte della sua famiglia. “La madre di mio padre era ebrea -dice l’attore- e mio padre ha sempre evitato di parlare di quel periodo perché immagino avesse ricordi traumatici, credo gli stessi che ha il personaggio del film ha al suo interno”. Temi che stanno molto a cuore all’attore: “Mi interessava anche per questo motivo fare il film, in un momento in cui la società è permeata da odi razziali: basta vedere gli Stati Uniti, che stanno vivendo il momento più buio della loro storia”.
E il titolo emblematico della pellicola, ‘Non odiare’, lo spiega bene il regista Mauro Mancini. “Spero che non rimanga solo un titolo, ma diventi un nuovo comandamento laico, con tutto il rispetto per il decalogo”, dice Mancini. Che sottolinea come, nella storia raccontata (che prende spunto da un fatto realmente accaduto a Paderborn, in Germania, dove un medico si è rifiutato di operare un paziente con un tatuaggio nazista) il titolo “dialoga con tutti e due i mondi che si contrappongono nel film e riassume molto bene la vicenda, in cui non si capisce chi è vittima e chi è carnefice. Tutti odiano e vengono odiati”.
Un monito e uno stimolo che possa spingere “ad interrogarsi su cosa porta l’intolleranza, a cosa sta portando l’odio. Soprattutto che spinga a non essere più indifferenti”, dice Mancini. Che sul finale ‘aperto’ della pellicola, aggiunge: “Volevo che il finale rappresentasse una piccola luce, ma non volevo un finale dove tutto si riconcilia, perché la vita non è così”.