(di Massimo Germinario) “Quando fotografo qualcuno, non sono uno specchio, piuttosto un filtro: faccio entrare le persone da ritrarre dentro di me e le tiro fuori sotto forma di re-interpretazione: a volte il soggetto ritratto vede di se’ nelle mie foto aspetti che magari non conosceva o tentava di nascondere. E così alla fine, spesso un ritratto è un atto liberatorio”. Così Giovanni Gastel racconta la complicata iterazione fra le persone dai due lati della fotocamera, che trova espressione in una grande mostra appena inaugurata al Maxxi di Roma: in ‘The people I like’ curata da Uberto Frigerio, il grande fotografo propone oltre 200 “ritratti dell’anima” di politici, artisti, sportivi, imprenditori, una galleria che è davvero “un ritratto collettivo di anime”, incontrate nel corso di una carriera quarantennale.
Un tratto comune, spiega all’Adnkronos, è la luminosità, che non è quella dei flash o dei banchi luce: “Nelle mie foto la luce non deve ‘cadere’ sulle persone ma ‘uscire’ da loro, quasi fossero lampadine. Un tentativo che mi ricorda quanto è scritto nelle Scritture e cioè che ‘Quando risorgeremo saremo luminosi e perfezionati’: insomma, senza rubare il mestiere a nessuno cerco di fare un po’ questa operazione”.
E non a caso, spiega, il ritratto peggiore è quello di chi mente: “Il peggior soggetto è quello che si difende dietro il personaggio e io allora non riesco a entrargli dentro, vedo un muro dove rimbalzo nel mio tentativo di seduzione, che è anche di sincerità”.
Però, ammette Gastel, “di solito, parlando o scherzando alla fine riesco a farcela”, grazie anche alle tecnologie digitali che – per la possibilità di intervento a valle – “mi hanno ‘liberato’, permettendomi di muovermi vicino al soggetto, scattare una sequenza, parlargli”. Insomma, ammette, “dopo avere scattato milioni di foto in analogico, sono passato al digitale: ho cambiato gli strumenti e a quel punto dovevo scegliere se suicidarmi o accettare la sfida di un mezzo che contiene un’estetica diversa”. “Non a caso – aggiunge – da quando c’è il digitale ho fatto molti più ritratti che nel passato”.
E’ un periodo intenso per il fotografo milanese che oggi a Verbania Pallanza, partecipa a un incontro nelle sale di Villa Giulia, in occasione della mostra collettiva ‘Giardini disobbedienti’, assieme ai curatori della mostra, Maria Sabina Berra e Pio Tarantini, e molti dei fotografi e fotografe coinvolti nel progetto. Un periodo in cui ha continuato a fermare in una foto i volti delle persone, volti nei quali – spiega – è possibile vedere in controluce i segni dei terribili mesi che abbiamo alle spalle.
“Dopo il Covid ho scattato molti ritratti, e non c’è dubbio che siamo tutti cambiati: ci portiamo dietro una vulnerabilità come quella dei newyorchesi dopo l’Undici Settembre, ci siamo accorti di essere fragilissimi e questo puo’ anche essere un bene. Il risultato è che ora nei ritratti che faccio c’è un ‘fondo’ di vulnerabilità che prima non c’era”. E dopo avere ‘cristallizzato’ in una immagine migliaia di persone, la voglia di scattare ritratti non gli è ancora passata: ” Mi piacerebbe fotografare Dio”, scherza, “o magari potrei fotografare il nulla, sperando che tutti capiscano che l’ho fotografato io”.